Il mattino del 22 agosto 1980 anche Reinhold Messner, un alpinista italiano di 37 anni, ha dovuto affrontare un difficile problema respiratorio. Quel giorno Messner aveva deciso di raggiungere da solo e senza l’aiuto di bombole a ossigeno il tetto del mondo: cioè la vetta del monte Everest, a 882 metri di altezza sul livello del mare. Ricordando l’ultimo tratto di salita, Messner racconta: “Mi arrampico verso la cima usando le mani e le ginocchia… mi sento strano, apatico. Nelle 3 ore successive vivo come se il tempo non passasse mai. Penso che la mancanza di ossigeno e l’insufficiente irrorazione di sangue al cervello possano spiegare queste sensazioni… Sulla cima sono pesante come una pietra. Dovrei fare delle fotografie ma non ce la faccio. Mi rannicchio su me stesso, mi pare di aver fatto qualcosa di superiore alle forze umane”.
Eppure il tessuto (o parenchima) polmonare di Messner è identico o molto simile a quello di qualsiasi individuo sano e adulto. Esso è composto di piccole cavità sferiche del diametro di 0,1 – 0,3 millimetri chiamati alveoli: sarebbero addirittura 300 – 400 milioni. Se fosse tutto steso per terra, il tessuto polmonare misurerebbe pressappoco 100 metri quadrati di superficie. Sono 100 metri utili allo scambio tra l’ossigeno dell’aria nuova, aspirata dall’esterno, e l’anidride carbonica dell’aria vecchia, buttata fuori dall’interno. In questo scambio sta il segreto della respirazione e della vita, per il sangue, per tutte le cellule, per i vari organi del corpo.
Quale differenza passa allora tra le scadenti prestazioni respiratorie dell’uomo-tipo e quelle di qualsiasi atleta in grado di eccezionali exploit? Si tratta veramente di un divario che non può essere colmato? Quanto è il frutto di doti naturali, innate e quanto il risultato di una metodica applicazione? Per capirlo, bisogna riflettere sui dati fondamentali che descrivono il meccanismo del nostro apparato polmonare.
La frequenza media dell’atto respiratorio (un’inspirazione e un’espirazione) è di 15 movimenti al minuto: ma quando l’organismo è sottoposto a uno sforzo intenso, allora esso aumenta. Si può arrivare eccezionalmente anche a 55-60 atti respiratori al minuto. Secondo i testi internazionali di fisiologia, 25-30 movimenti al minuto rappresentano per un individuo normale e in giovane età una buona “velocità di crociera”, un ritmo cioè che può essere mantenuto anche molto a lungo. Ci avete mai provato?
Anche la profondità del movimento del respiro è molto variabile. Durante un lavoro leggero, con un movimento di respirazione “muoviamo” non più di 300 centimetri cubi d’aria, ma la “capacità vitale”, cioè tutto il volume d’aria che può essere mobilitato con una ventilazione forzata, è molto più alta e arriva normalmente a 4 litri e mezzo d’aria.
Parallelamente cambia anche il lavoro e l’efficienza dei muscoli interessati al respiro: il diaframma, i muscoli intercostali, gli scaleni, gli sternocleidomastoidei. Nel respiro tranquillo, per esempio, i movimenti d’inspirazione sono fatti quasi soltanto dal diaframma: ma non appena la fatica ci obbliga a movimenti più veloci del torace, pochi sanno muovere come si dovrebbe il diaframma ed è proprio per questo che molte volte la respirazione, pur essendo veloce, è insufficiente. L’aria inspirata non arriva cioè a ventilare tutto il polmone e il rifornimento di ossigeno è carente.
Infine possono mutare, e di molto, anche altri fattori che concorrono a stabilire le performance respiratorie. Muta la capacità di utilizzare l’ossigeno da parte dell’organismo (il sangue arterioso contiene, in condizioni normali, il 20 per cento di ossigeno): cambia la quantità e l’intensità degli stimoli nervosi che influiscono sul respiro; cambia inoltre la quantità di sangue che è spinta dal cuore nei polmoni e negli altri organi.