Meditazione nella storia – Veda e le Upanishad
Veda significa “scienza, sapienza sacra”. È il più antico testo redatto in sanscrito tra il 1500 e il 800 a.C. e rappresenta l’insieme delle sacre scritture indù. I Veda comprendono quattro raccolte (Samhita) di testi poetici.
Ad esse sono collegati anche testi di carattere liturgico (Brahmana,), libri di meditazione (Aranyaka) e di speculazione filosofico-religiosa (Upanishad). La sezione principale comprende: Rigveda, Atharvaveda, Sama veda e Yajurveda. Il Rigveda (“il Veda degli inni”) è la parte più antica. È costituito da 1028 inni, suddivisi in dieci libri, dedicati a varie divinità induiste, che si concludono con una preghiera atta a ottenere benessere per l’intera comunità.
Veniva utilizzato dai sacerdoti (hotar che invocavano gli dei leggendo gli inni ad alta voce. I libri compresi tra il II e il VII si rifanno alla tradizione delle antichissime famiglie sacerdotali, i brahmani; l’VIII libro raccoglie inni attribuiti a cantori della famiglia Kanva; il IX è dedicato al dio Soma, che personifìca la bevanda sacra usata nei sacrifìci. Il I e il X libro sono più recenti. L’Atlrnrvaveda (“il Veda delle formule magiche”) contiene formule, suppliche, sortilegi, incantesimi amorosi ed è molto più vicino alla sensibilità e alle problematiche della vita quotidiana. Comprende in totale 731 inni e viene fatto risalire a un asceta di nome Atharvan. Il Sarnaveda (“il Veda dei canti, delle melodie”) raccoglie 1810 strofe, che costituiscono i canti liturgici per la celebrazione dei sacrifici. Era utilizzato da cantori detti udgatar. Lo Yajurveda (“il Veda delle preghiere”), organizzato in 40 sezioni, è una raccolta di preghiere pronunciate dai sacerdoti adbvaryu responsabili delle varie operazioni manuali durante i sacrifici.
Infine fa parte dei Veda anche il Vedanga, un insieme di testi che trattano di astronomia (jyotisa,), fonetica (siksa), grammatica (vyakarana), prosodia (chandas) ed etimologia (nirukta). Le Upanishad (IX – VI secolo a.C.) costituiscono la parte finale dei Veda: per molti studiosi il loro significato è quello di “dottrina segreta”, in quanto Upanishad deriva dal termine sanscrito che indica l’atto di sedersi ai piedi del maestro (guru) per apprendere la sua dottrina. Perlopiù si tratta di scritti in prosa con qualche brano di poesia, mentre alcuni sono interamente composti in versi.
Le Upanishad hanno costituito il fondamento di uno dei sei sistemi ortodossi della filosofia indù, il Vedanta. L’argomento fondamentale delle Upanishadè la natura di brahrna, l’Anima universale, e la sua identità con l’atnian, il sé individuale. Il primo (dalla radice an, respirare) è inteso come anima individuale che determina la personalità dell’uomo, il secondo (dalla radice brh, effondersi), come forza primaria e assoluta. Tra gli altri argomenti vi sono poi la natura e lo scopo dell’esistenza, i diversi metodi di meditazione e adorazione, l’escatologia, la salvezza e la teoria della trasmigrazione delle anime.
La formula sanscrita tat tvam asi: “tu sei quello”, ovvero “il cosmo sei tu, anima individuale” ben sintetizza la concezione che nell’individuo sia presente l’essenza del divino. Interpretazioni differenti del Vedanta hanno dato origine a numerose scuole filosofiche indiane: la più importante è Advaita (“non-dualità”) elaborata dal filosofo indù Shankara che identificava il brahman e l’atnian. L’ i g n o r a n z a offusca l’anima (atman) dell’ LI O m o re n de n do la poi incapace di cogliere la natura universale dell’Essere (brabrnan); essa percepisce quindi cose e gli esseri viventi come entità separate e ben distinte, non comprendendo che le varie esistenze separate sono irreali: il brahman è nascosto dal velo di maya. Finché il sé individuale continuerà a cercare ostinatamente il vero Sé nel mondo fenomenico, allora rimarrà prigioniero del samsara, la catena ininterrotta di esistenze, morti e rinascite che ogni anima non illuminata subisce come conseguenza del proprio karma.
E solo grazie alla conoscenza del Vedanta che l’anima individuale distingue la realtà illimitata dietro al velo di maya, comprende finalmente che la propria natura è identica al brahman e raggiunge il moksha, la liberazione da samsara e karma, e infine il nirvana.
Questa dottrina si è affermata rapidamente in India, favorita dalle classi dominanti, poiché attribuiva all’azione compiuta in un altra vita la causa di situazioni ingiuste, ma anche perché offriva la possibilità di migliorare la propria condizione nella vita successiva. Sul piano etico questa dottrina insegna, da un lato, la rinuncia al mondo in vista dei beni superiori della contemplazione, ma, dall’altro l’adempimento dei doveri quotidiani e degli obblighi cultuali. Grande importanza è data alla contemplazione e alla meditazione, considerata determinante ai fini dell’illuminazione.
Tratto dal libro “Meditazione” – Key Book